Kit per la sopravvivenza emotiva – ovvero come sopravvivere ai terremoti emotivi.

Di seguito vi proponiamo un estratto di alcune stimolanti considerazioni pensate a partire da situazioni extra-ordianrie, la guerra, l’incertezza imperante della nostra società, la tortura o le situazioni traumatiche, quanto più attuali e adattabili al contesto extra-ordinario che stiamo vivendo, e che riconducono alle costante e rinnovabile necessità dell’individuo di trovare strade da percorrere nella direzione dell’adattamento alla vita. Si evince la necessità di dotarsi, per l’individuo demotivato e solo del presente, di un armamentario emotivo minimo per affrontare “l’afasia dell’orrore”. Ci vuole insomma un Kit per la sopravvivenza emotiva, su cui basare per ricostruire, dopo le catastrofi individuali e sociali di una fase storica come la nostra, dove l’indifferenza, l’afasia (Balsamo), l’alessitimia ( Thanopulos), sembrano prevalere.
Come sopravvivere all’afasia dell’orrore – Maurizio Balsamo
Che cosa accade in un individuo, in una popolazione, in una cultura o in una comunità esposta al dramma della guerra è una questione non certo ovvia, ma non affatto sconosciuta all’esperienza umana, alla riflessione politica, filosofica, etica, psicoanalitica. Il che tuttavia, come sappiamo, non rende quella medesima esperienza capace di difenderci dalla passione per la guerra, dal godimento dell’orrore, dalla partecipazione furiosa alle barbarie, trasformandoci in eventuali colpevoli di sterminio, violazione dei diritti umani, torture. Che cosa accade in quella spesso infinita zona di transizione che definisce il dopo guerra e in cui – oltre che a ricostruire, rimpiangere i morti, fare i conti o meno con il passato recente e delineare nuove organizzazioni di vita – si tenta di riappropriarsi di spazi, gesti e immagini sottratte dal tempo e dalla storia che ci aveva preceduti, mediante la creazione di nuove rappresentazioni, configurazioni corporee, affettività, è altrettanto oggetto di ampia riflessione. In che modo inoltre tutto questo orrore si deposita nello psichico di una generazione, si trasmette ad altri che giungeranno, mediante riapparizioni sintomatiche, risorgenze ideologiche o di pensiero che ritenevamo superate, non è, neanch’esso, certo sconosciuto all’indagine psicoanalitica. (…) In che modo riusciamo a istituire una zona protettiva per permettere allo psichico di esercitare le sue funzioni trasformative, quando, intorno a noi, l’insensatezza di una parola, l’impossibilità di sospendere il giudizio, la paura, l’oscillazione improvvisa fra l’angoscia di essere uccisi o di uccidere si impossessa degli esseri umani, rendendoci disorientati, come scrive Freud in Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte di fronte alla guerra del 1915, o sconvolti dalla comparsa della possibilità di una distruzione totale? Come osserva Freud in quel saggio, è la stessa esperienza della morte a mutare radicalmente di segno, dalla sua casualità al suo accadere infinite volte nello stesso giorno sui campi di battaglia, e questa radicalità, questa impossibilità di essere messa da parte, è un esempio rilevante di trasformazione. Si può tentare di fermare gli accadimenti insensati della storia, ad esempio protestando contro l’esilio dei bambini, come fece Winnicott durante la prima evacuazione dei bambini da Londra nel 1939 (82700 furono quelli mandati via in famiglie d’accoglienza o in centri, con esiti dolorosi se non catastrofici sui bambini medesimi e sulle loro famiglie)(…) Nella lettera al British Medical Journal del 16 dicembre 1939, Winnicott, Bowlby e Miller scriveranno, in maniera preveggente, che se quello che loro proponevano era esatto, l’evacuazione dei bambini senza le loro madri avrebbe determinato un aumento importante della delinquenza giovanile nei futuri dieci anni e protestavano così contro questa evacuazione /deportazione. Non si trattava solo, come è evidente, di una diversa lettura delle forme di sopravvivenza, ma di una necessità di prendere in considerazione, nei momenti di guerra e di catastrofe collettiva, l’esigenza di mantenere un legame, una relazione che permetta di evitare lo sfaldamento dell’essere psichico collettivo. Si può cercare di istituire una dimensione giuridica della guerra, attraverso il suo contenimento, la distinzione di guerra giusta e ingiusta, o degli attori giuridici che ne possano legittimamente decretarne l’inizio, oppure esorcizzarla sempre e comunque. Si può proporre, come fece Bion, cosa praticamente inaccettabile in un ambiente militare, dei «gruppi senza leader», tentando di inserire la sofferenza individuale in una presa in carico gruppale per ricostruire un legame sociale andato perduto. O collezionare immagini di guerra, nel silenzio delle parole, nell’afasia che la guerra induce, come hanno fatto Brecht con l’ABC della guerra, o Warburg con Mnemosyne, cercando di demistificare la presunta chiarezza delle immagini, dislocando grazie agli epigrammi e alle didascalie, in Brecht, o grazie alla messa in relazione di ciò che sembra invece lontanissimo, in Warburg, la retorica di ciò che appare dotato di un unico senso (…)
Restare sani– Sarantis Thanopulos
(…) Il nostro pessimismo è, ragionevolmente, aumentato rispetto a un anno fa e, a giudicare da numerosi segnali, sono in arrivo guai seri. Del processo patologico che ci investe è difficile distinguere le cause dai sintomi: l’iniquità mostruosa degli scambi, la concentrazione delle risorse e delle ricchezze nelle mani di oligarchi, la xenofobia galoppante diventata la fonte d’ispirazione dei movimenti (a)politici di successo, lo svuotamento dell’ordinamento democratico, laddove esiste, il connubio stabile tra lavoro precario e disoccupazione, la gioventù sempre più sfruttata e sempre più senza futuro, la ricerca scientifica umiliata come mezzo di conoscenza e ridotta a strumento di un potere tecnocratico tanto sofisticato quanto ottuso. Quali che ne siano le cause e gli effetti, viviamo in un mondo psichicamente insano. La sanità psichica consiste nell’essere “vivi”: capaci di sentire i propri desideri e emozioni in profondità e di godere della loro intensità e delle loro trasformazioni. Nell’essere “svegli”: poter dormire per sognare, essere sufficientemente reattivi per distinguere tra giorno e notte. Infine, nello “stare bene”: in grado di vivere il piacere nella sua complessità e di provare dolore. Non c’è bisogno di fini strumenti diagnostici per capire che queste tre qualità della sanità psichica versano in pessime condizioni. Il rifiuto delle trasformazioni e della profondità dell’esperienza sono fenomeni di culto di massa. Per tenersi svegli si ricorre a eccitanti di ogni tipo che trasformano i sogni in allucinazioni. La mancanza, il lutto e il dolore sono vissuti da cui fuggire e il vivere anodino è diventato sinonimo del piacere. Non si vive per provare piacere, ma per non soffrire. Tra il nucleo vivo, rimasto desiderante, dell’umanità e la vita esteriore delle relazioni in superficie si è creata una fascia spessa di materia inerte, tessuto fibroso costellato di aree limacciose, infette che genera depressione, incubi persecutori e violenza cieca. La depressione dell’esperienza collettiva non lascia spazio a una vita politica ,vera e propria (il conflitto tra desiderio e bisogno e tra uguaglianza e diseguaglianza). Ragionare in termini di categorie politiche e immaginare progetti conservatori, populisti, riformisti, rivoluzionari, è diventato faticoso: sembra, a tratti, uno sforzo surreale. (…) Possiamo limitare i danni della malattia creando zone protettive tra le parti sane e il processo morboso. Tuttavia, questo è un atteggiamento difensivo (in attesa di tempi migliori) e si sa che sotto una crescente pressione anche le migliori dighe possono cedere. È necessario dunque coltivare ciò che è “vivo”, re-espanderlo a spese della malattia. A partire dall’amicizia. L’amicizia e la differenza. L’amicizia fonda la Polis, ci porta oltre i legami di “sangue”,di famiglia (οίκος). Perché esprime la parità dei soggetti sul piano del desiderio e ama, non rifugge la loro differenza (nella sua forma più nobile: la φιλία πρώτη). L’amico presume il nemico: la sua libertà (senza la quale non esiste una vera amicizia) di contraddire il mio desiderio. La nostra epoca distrugge l’amicizia. L’inerzia (di origine psichica) che ne deriva, producendo l’afasia di cui parla Maurizio Balsamo, ma possiamo anche chiamarla alessitimia, segnala che viviamo sempre di più in un mondo in cui l’altro ci è estraneo, indifferente. Promuoviamo l’amicizia che, al contrario dell’estraniazione, ama la differenza e non teme il conflitto.
La resistenza alla distruzione psichica – Silvia Amati Sas
(…) Penso che, da un punto di vista psicoanalitico, “l’Afasia dell’Orrore”, fatta di silenzio e apparente indifferenza, può essere considerata come una “difesa attraverso l’ambiguità” e all’estremo un “adattamento a qualsiasi cosa” come reazione inconscia alla violenza estrema traumatica d’origine umana. In diversi gradi anche tutta la situazione di violenza quotidiana direttamente subita o ricevuta come notizia va a costituire un ambiente comune a tutti, un ambiente “depositario” “smantellante” che incide sulla possibilità soggettiva di organizzare pensiero e strutturare gli affetti, perché comporta equivoco, incertezza, insicurezza. Ci troviamo nello spazio intrapsichico della “transoggettività” tanto difficile da concettualizzare. In questo spazio soggettivo interno qualsiasi “depositario” esterno delle angosce primarie (o divenute tali), anche fosse il più perverso, può diventare “ovvio”, banalizzato, normalizzato, perché la difesa attraverso “l’ambiguità” implica aconflittualità. L’idea di un “inquadramento” o di un “depositario” ( Bleger) è particolarmente utile per concepire l’estremo bisogno di contenitori esterni “non alienanti”(in senso di Winnicott) per la nostra umana necessità di certezza .Oggi, infatti, i “depositari” sociali sono in totale crisi, più che mai facilmente manipolabili dai poteri più diversi, finanziari, ideologici, mafiosi…Nella mia esperienza di lavoro psicoanalitico con reduci da situazioni estreme (tortura, campi di concentramento) ho avuto bisogno di trovare il “dove” o il “come “ si era espressa la “resistenza” alla distruzione psichica nel periodo dei maltrattamenti. Ho capito che questa resistenza, che considero una sfida soggettiva inconscia, è collegata con la sollecitudine o preoccupazione per il destino, l’esistenza e la dignità di un altro che esiste (o è esistito ) nella vita relazionale di quel paziente; questa preoccupazione (”concern”) riguarda “un oggetto da salvare”, che, scoperto nel lavoro terapeutico, serve per aiutare il paziente a prendere “insight “ della coerenza e continuità di se stesso durante il periodo traumatico. Oggi in rapporto alla domanda posta da Maurizio Balsamo, (in che modo riusciamo a istituire una zona protettiva?), mi chiedo se questo movimento intrapsichico di preoccupazione per un oggetto da salvare, che poggia su una esperienza di relazione affettiva, non lo si potrebbe più propriamente considerare, nella transoggettività, come una preoccupazione condivisa che appartiene a ideali etici comuni. E allora mi domando quale parola comune e condivisa socialmente sarebbe portatrice di questa utopia, non certamente la iper-usata parola “libertà”, neanche forse la parola “democrazia? o piuttosto “diritti dell’uomo “? Sarebbe necessario insomma un concetto condiviso, organizzante di un comune conflitto con il perturbante e abusante sociale. Potrebbe così essere riconosciuta, (qualunque sia il nome sotto il quale si nasconde), la sua attività psicopatica di suscitare orrore e terrorizzare allo scopo di far sì che l’ altro divenga indifferente, ambiguo, accomodante nei confronti di tutto quello che succede intorno a lui, adattato a qualunque situazione ed a qualsiasi strada le sia offerta.
Inventario degli oggetti da salvare– Cosimo Schinaia
Ritengo opportuna la costruzione di un piccolo inventario degli oggetti da salvare per rendere salde le necessarie spinte antientropiche nei confronti delle forze che sembrano spingerci alla dissoluzione dei legami. Ai diritti dell’uomo proposti da Silvia Amati Sas e all’amicizia che ama la differenza e non teme il conflitto di Sarantis Thanopulos, aggiungerei la speranza, che è altra cosa rispetto al banale e superficiale ottimismo. Sempre più mi capita di assistere (…) ad atteggiamenti disperatamente distruttivi, quali “ormai non c’è più niente da fare”, “bisogna vivere alla giornata”, “la politica fa schifo”, ecc. Si tratta di atteggiamenti malignamente narcisistici che tendono a fare terra bruciata del lascito alle nuove generazioni da parte di chi, in parte più o meno grande, la sua vita l’ha già vissuta. L’amicizia proposta da Sarandis, la speranza sofferta proposta da me fanno il paio con la conclusione di Fuori, il bel lavoro letto da Laura Ambrosiano al Centro Milanese di Psicoanalisi e che trascrivo: “Forse si tratta di inventare-trovare “nuovi luoghi di umanità” (E. Donaggio, 2016, p. 144), vie per ridare vita a ciò che sembra scomparso nella mentalità diffusa: l’intimità, la pensosità, le pause […]. Inventare incontri di minoranze inedite, di piccoli gruppi estemporanei che possano cercare gesti, idee ed emozioni difformi ed estranei rispetto all’andamento dominante. Piccoli luoghi in cui, faccia a faccia, ci si incontra per fare altrimenti, per pescare idee nuove, per vedere nascere piccole utopie. Le piccole utopie sono prospettive di senso che non definiscono compiutamente il punto di arrivo, la meta, (la chiarezza della meta è caratteristica di grandi utopie come quella del potere al proletariato o della purezza della razza), ma che sono utopie itineranti, capaci di sostare per chiedersi come sta andando il percorso, cosa accade mentre ci si incammina”. (…) Riprendendo un dibattito degli anni ’70, la teoria della rinuncia pulsionale si contrappone a quanto già Marx sosteneva nei Manoscritti, che la socialità dei lavoratori non è strumentale al raggiungimento di un obiettivo politico, ma è piuttosto un bisogno immediato, “spontaneo”. Louis Althusser (1976) riprende le intuizioni marxiane e sostiene che esiste nell’uomo una certa esperienza padronale di se stesso. Articolando le relazioni tra inconscio e ideologico, descrive un’esperienza che porta a subordinare le pulsioni sociali ai desideri razionali ed egoistici dell’individuo. Ágnes Heller (1974) ha poi sostenuto che prima dei bisogni materiali vi sono nell’uomo i bisogni radicali, intendendo questi ultimi come le pulsioni sociali. D’altronde David Liberman (1970-1972) definisce metasetting l’ambiente sociale, culturale e economico che ci circonda e Puget e Vender (1982) parlano di mundos superpuestos per indicare la stretta interrelazione tra realtà esterna e realtà interna. Ho avuto modo di rileggere recentemente un saggio di Ronald Laing del 1967 (La politica dell’esperienza, Einaudi, Torino, 1968, pp. 16-17) in cui riprende questi temi e scrive: “L’esperienza è invisibile agli altri, ma essa non è “soggettiva” più che “oggettiva”, “interiore” più che “esteriore”, non è processo più che prassi, ingresso più che uscita, psichica più che somatica, non consiste in incerti dati cavati fuori da una introspezione, più di quanto non consista in una estrospezione. Meno che mai l’esperienza è “processo intrapsichico”. Tali transazioni, relazioni obiettive, relazioni interpersonali, transfert, controtransfert, se si suppone di avere a che fare con la gente, non sono un semplice gioco reciproco di due oggetti nello spazio, entrambi forniti di ininterrotti processi psichici. La distinzione tra esteriore e interiore si rifà solitamente a quella tra comportamento ed esperienza, ma talvolta si riferisce ad alcune esperienze che vengono supposte “interiori” in contrapposizione ad altre “esteriori”. Più esattamente si tratta di una distinzione tra diversi modi di esperienza, cioè tra la percezione, considerata come esteriore, e la immaginazione, ecc., contrapposta come interiore. Ma la percezione, l’immaginazione, la fantasia, il fantasticare, i sogni, la memoria, altro non sono che modi di esperienza, nessuno dei quali è più “interiore” od “esteriore” degli altri”. Concludo con la speranza che si tenga conto della brutalità delle cose, come ne scrive Lorena Preta (2015), di quell’esterno, di quel fuori che può infestare, appiattire i nostri inconsci, lavorando in continuazione per la costruzione di difese vigili, e costruttive e non passivamente reattive e patologiche come quelle fin qui segnalate.
Su quali forze interne puntare per sfuggire all’annichilimento del pensiero? Come ristabilire speranza e futuro? Dai vari punti di vista espressi vengono fuori alcuni capisaldi: stare in contatto con le proprie emozioni, tener vivi in sé ad ogni costo il legame e la relazione, farsi portatori di speranza, su cui ricostruire nuova fiducia in sé, costituire un idoneo tessuto sociale e forse elaborare nuove forme di idealità. (Silvia Vessella)