Sulla soglia della fase 2, il diritto ad aver paura

Sulla soglia della fase 2, il diritto ad aver paura
Di Giuseppe Saraò, Psichiatra, Psicoanalista membro ordinario SPI
È iniziata la “mitica” fase 2, tanto attesa e desiderata dopo un confinamento duro e doloroso. Le autorità ci hanno costretto a una vita di clausura, hanno scelto la salute pubblica pur fra tante esitazioni e contraddizioni. Ma è anche vero che in queste settimane sono emersi un senso della collettività che pensavamo di non avere, comportamenti di responsabilità e movimenti di solidarietà, un sentirsi sulla stessa barca di fronte a una tempesta paurosa e smisurata. Adesso si cominciano a fare dei bilanci, ci sono perdite di vite umane e famiglie che non hanno avuto il diritto di seppellire i propri morti. Si riscopre la necessità di una sanità pubblica efficiente, sanità spesso bistrattata in questi anni da tagli e ristrutturazioni selvagge. Inoltre, sempre di più emergono preoccupazioni per le sorti dell’economia; alcuni mestieri e professioni sono in grande difficoltà (pensiamo ai liberi professionisti, al settore del turismo, della ristorazione…), soprattutto si respira, insieme alla speranza di ripartire, un clima di incertezza per quello che accadrà. Se usiamo una metafora bellica (sicuramente non è la scelta migliore), si può dire che la guerra non sia finita, ma che c’è una sorta di armistizio con il fantomatico virus: dovremo temere imboscate e possibili focolai infettivi. Insomma, anche qui ci troviamo in una faticosa instabilità, dobbiamo navigare a vista, attenti e cauti. (…) Di fronte a questi complessi movimenti collettivi, possiamo considerare l’esperienza del covid19 come una cartina al tornasole rispetto al tema della comunità, questione centrale della nostra esistenza, di cui spesso ci siamo dimenticati. Siamo di fronte a un paradosso che è connaturato al nostro destino di umani: abbiamo bisogno degli altri ma nel contempo l’alterità è portatrice di disordine, spesso di scandalo. Infatti l’altro tende a sovvertire, per il fatto semplicemente di esserci, il nostro ordine (interno ed esterno), ci ripropone continuamente uno scarto, una differenza; in poche parole siamo obbligati a fare un lavoro psichico di riduzione, di bilanciamento, di riconsiderazione dei nostri desideri.
In questo passaggio storico la presenza dell’altro ci può contagiare, e anche i nostri cari possono rappresentare un pericolo; questo pone un dilemma drammatico che evoca la dimensione del perturbante di cui Freud ci ha parlato: uno spaesamento, un disorientamento. Emerge qualcosa di sorprendente e inquietante, c’è un qualcosa che ci abita e ci sfugge, una estraneità con cui siamo costretti a misurarci, non possiamo sottrarci. Pensiamo agli operatori che affrontano i malati di covid e che devono scegliere se andare in quarantena oppure trovare una vicinanza impossibile con i propri familiari: curano gli altri ma si potrebbero trasformare in untori, portare la morte dentro le mura domestiche e di conseguenza sono costretti a confrontarsi con gli aspetti ostili insiti in ogni relazione amorosa. Già il covid porta morte e malattia e ognuno di noi, senza saperlo, può diventare un emissario, un sicario. Questo ci costringe a cercare una misura di protezione, che non è solo sanitaria. Siamo obbligati a tarare la vicinanza e la distanza emotiva con l’altro, ma comunque ci espone a una grande frustrazione: ci dobbiamo assumere il rischio di contagiare l’altro. Questo vuol dire che dobbiamo attestarci in una dimensione di responsabilità, non pensare che gli untori sono sempre gli altri, i diversi, i capri espiatori; ci troviamo in un territorio in cui il sentimento di colpa è un valore da considerare, significa tollerare il danno che possiamo fare all’altro. Sappiamo che questo stato mentale di consapevolezza non è facilmente raggiungibile perché comporta delle rinunce, un continuo lavoro personale che la cultura comunitaria può favorire o disincentivare.Molti cittadini (…) si sentono soli di fronte a quello che incontreranno nei prossimi giorni, quando ci sarà la possibilità di riprendere. Finalmente, ma come affrontare tutto quello che ci aspetta? Siamo sicuri di voler uscire? E con quali strumenti quando la realtà si presenterà in modo molto diverso da come l’abbiamo fantasticata? E ancora in questo venir fuori, potremo appoggiarci a qualcuno che sentiamo affidabile? O ci troveremo da soli e allora non conviene rimanere fermi come paralizzati in attesa di tempi migliori? Se il tempo riprende a scorrere, con la velocità del prima covid, siamo sicuri che abbiamo voglia di ritornare? In poche parole ognuno di noi, soprattutto chi ha vissuto il confinamento dall’interno, si pone la questione dello spazio e della temporalità, di una ripresa, un po’ come accade agli animali che escono dal letargo. Bisognerà riesplorare gli spazi, nonostante il pericolo in agguato, ci dovremo confrontare con le consapevolezze acquisite nella tana; i rumori di fondo della vita fuori vanno provati sulla propria pelle. (…) Sappiamo che la realtà esterna ha una grande importanza sulla nostra psiche e poiché la cosiddetta sanità mentale è un complesso gioco tra mondo interno e realtà esterna, ognuno di noi cerca per tutta la vita un equilibrio che si mantiene sempre precario. Se lo spessore della realtà esterna è troppo, la nostra mente fatica e cerca delle strategie di sopravvivenza. In fondo i sintomi e le sindromi psichiatriche sono il tentativo drammatico di sopravvivere in condizioni estreme. Chi ha già una patologia psichiatrica consolidata si trova a gestire un surplus, i sintomi si accentuano come risposta ad una tensione interna che non viene contenuta nella mente. Una parte delle chiamate sono di pazienti che chiedono aiuto, sono come sbandati in difficoltà a ritrovare il contatto con lo psichiatra, con il servizio territoriale, hanno semplicemente la necessità di essere condotti nel posto giusto, si sentono sub confusi, spersi di fronte ad una condizione traumatica di grande violenza. Poi ci sono i cittadini che in questo passaggio di attesa e di ansia hanno sviluppato un attacco di panico, come subito dopo un terremoto, o meglio hanno avuto un terremoto interno: i sistemi psichici di trattamento delle esperienze emozionali sono andati in tilt. Hanno bisogno di sapere quanto si devono preoccupare, se tutto quello che è avvenuto ha un nome, anche se spesso ci arrivano da soli e desiderano soprattutto sentire la voce di un estraneo competente. E ancora, al di là della retorica dello stare insieme, nelle famiglie in questi mesi ci sono state esperienze di vicinanze ma anche di grandi conflittualità che si sono radicalizzate: matrimoni che sono arrivati, dopo lungo tempo, al capolinea, coniugi che manifestano una grande angoscia con la consapevolezza che dopo quello che hanno vissuto non potranno far finta di niente e quindi la riapertura li confronterà con l’ambivalenza di una posizione chiara e spesso dolorosa.
Sentono che dovranno scegliere e la scelta comporta una perdita, un’altra condizione ancora da esplorare. E poi la paura di perdere il lavoro, di non ritrovarlo, di trovarsi esposti senza protezioni ad una caduta che genera rabbia e vergogna. Insomma sto parlando di una umanità variegata, che si deve confrontare con una crisi strutturale e personale, che non trova strumenti adeguati, che ha il coraggio di cercare, ma nel contempo spaventata di non trovare quello che cerca in un passaggio in cui i modelli sociali non sono tarati culturalmente per affrontare un’emergenza sanitaria totale. Non è un caso che in queste settimane siamo andati con la mente alla peste, alla quarantena, alle esperienze di altre generazioni che hanno segnato la storia dell’umanità. In poche parole ognuno di noi si è dovuto interrogare sulla caducità della nostra esistenza, sui limiti della medicina e della tecnologia, sulla fragilità, un toccare con mano il bordo della vita e della morte. La morte non è solo quello che capita agli altri ma è molto vicina a noi e non possiamo semplicemente girarci dall’altra parte e far finta che non ci riguarda. La questione della riapertura, della fase 2, ci mette di fronte a scelte, a paure non sempre sopportabili. Il desiderio di rimanere dentro il rifugio del confinamento per alcuni è forte, per molti la possibilità di uscire, di riprendere in mano il proprio destino di umani, li espone a qualcosa di non pensabile, ad una sorta di angoscia senza nome di cui la psicoanalisi si è sempre occupata. Ci sentiamo meno padroni del nostro destino e questa è una ferita narcisistica con cui siamo costretti a convivere. Siamo obbligati a trovare un posto per la paura, c’è un’attesa, un esitare, dobbiamo fare spazio per una crisi personale e sociale, con la necessità di ricercare un senso a quello che a prima vista può sembrare insensato. C’è un diritto ad aver paura, è legittimo per gli adulti contemplare tale possibilità, ci troviamo a fronteggiare un rischio che tutto questo si possa trasformare in una condizione in cui non rimane che la fuga o la paralisi. Gli animali ci insegnano da sempre questi modelli di sopravvivenza, ma noi umani abbiamo la capacità di pensare pensieri complessi, possediamo un cervello emotivo raffinato, abbiamo imparato nei secoli la forza ma anche il disagio che la civiltà comporta. Chiedere aiuto è un gesto di coraggio, consapevoli che condividere con l’altro può essere un problema ma è anche una risorsa preziosa di cui è meglio non fare a meno.